II

L’ESPERIENZA LEOPARDIANA TRA FANCIULLEZZA E ADOLESCENZA, FRA EDUCAZIONE CATTOLICA, ATTRAZIONI DELLA RESTAURAZIONE E SVILUPPI STORICO-PERSONALI

Delineati cosí sommariamente i caratteri, a mio avviso, centrali della personalità leopardiana, sarebbe però erratissimo considerare, ripeto, un Leopardi sempre ugualmente «eroico» o sempre ugualmente teso nel fascio intero delle sue forze e perdere di vista la complessità e il divenire dinamico e dialettico della sua esperienza e della sua opera, annullare certe svolte fondamentali della sua vita, nel suo pensiero, nella sua poesia, con il risultato di diminuire sia la raggiera dei suoi toni umani e poetici sia la stessa forza delle sue piú mature conclusioni, tanto arricchite proprio dalla loro qualità di realizzazione, superamento (e persino scarto) di posizioni e risultati fortemente raccordati da una linea organica, ma anche estremamente inquieta, varia e saldamente svolta entro i vivi fermenti della storia personale e del suo attrito con la storia della sua epoca e con la meditazione del passato.

Proprio ricostruendo – anche se con necessaria rapidità – il tormentoso itinerario di una personalità sempre sollecitata e reattiva nelle condizioni della storia, sempre attivamente alla ricerca di risposte e di interventi – a livello morale, meditativo e poetico – di fronte ai problemi della sua esperienza mordente sul vivo del proprio tempo, si possono meglio comprendere la forza e la complessità dell’opera leopardiana e intendere la genesi e la direzione dei suoi singoli capolavori, tanto meglio che ipostatizzando un nucleo originario tutto preformato e contenente tutte intere le possibilità della sua poesia. Anzi, ripeto, tanto piú grandi ci appaiono le stesse mète terminali di quella personalità quanto piú ad esse si giunge attraverso la ricostruzione dinamica della ricerca poetica-intellettuale del Leopardi, ricchissima di momenti e di svolte comprovanti tanto meglio la falsità dell’immagine del poeta spettatore e immobilmente disposto – fra miserie e vane meditazioni arretrate e bloccate da un pessimismo scettico e distruttivo – ad attendere rare fulgurazioni poetiche di isolata e catartica perfezione.

Viceversa poche linee di vita e poesia ci appaiono cosí caratterizzate da un incessante e articolato sviluppo e da una fortissima tensione di esperienza e di superamento di posizioni e di motivi intellettuali e fantastici in uno svolgimento fittissimo e inesausto che, per il proprio assillo di sincerità e di persuasione, si profila in curve e fasi, spesso cosí ravvicinate e annodate fra persistenze e rotture, da richiedere a chi le studia una certa resistenza sia alla schematizzazione troppo sommaria sia anche alla tentazione di un disegno troppo oscillografico e minuzioso. E cosí, se la punta di diamante che incide le espressioni piú decisive e sintetiche di una cosí complessa esperienza è la poesia nei suoi vari momenti culminanti e nelle sue varie direzioni e fasi di poetica, questi stessi momenti, queste stesse fasi e direzioni possono rivelare tutta la loro forza e il loro pregnante significato solo se continuamente collegate con tutto il movimento dell’intera esperienza che porta il Leopardi dalle posizioni cattoliche della sua primissima formazione, dal loro sviluppo entro termini di accordo-attrito illuministico-cattolico e di consonanza e dissenso con le idee della Restaurazione, al crescente distacco da queste, alla delusione e crisi religiosa, filosofica, storica, al tenace tentativo di ricostruire una integralità umana nel «sistema» della natura e delle illusioni, al logoramento interno di quel sistema fino ai limiti di un pessimismo nichilistico esistenziale riscattato dal saldo processo di un pessimismo materialistico, che approda al capovolgimento del primo sistema e alla eroica persuasione della incolpevolezza dell’uomo e della sua necessaria lotta contro la natura e contro le ideologie spiritualistiche e religiose, in una prospettiva atea e antiteistica «disperata, ma vera», fondatrice di un supremo appello alla solidarietà di tutti gli uomini liberati da ogni inganno metafisico e trascendente come da ogni autorità tirannica in cielo e in terra e cosí portati a una loro nuova integralità etico-razionale nella costruzione di una civiltà difficile e pur possibile e comunque doverosa, frutto della loro intelligenza lucida, della loro fertile «immaginazione» e della loro volontà energica e strenua. Al centro c’è sempre una sostanziale intransigenza, un estremismo nella contrapposizione di valore e disvalore, una passione morale e intellettuale, dal cui attrito scaturisce la poesia, mai disancorata dalle esperienze successive e dalle pieghe di questo imponente processo di impostazione, logoramento, superamento dei grandi problemi storico-esistenziali cui il Leopardi si applica, a vario livello e con varia tensione (ma le stesse fasi di depressione non mancano mai di un loro significato ai fini del generale percorso leopardiano), durante tutta la sua vita di martire e di protagonista di una crisi storica ed esistenziale imponente e centrale nella problematica del primo Ottocento e nei suoi anticipi rispetto alle successive crisi dell’uomo moderno.

Né deve mai dimenticarsi come il Leopardi, proprio in forza della sua personale esperienza della stessa sofferenza fisica e della noia esistenziale e dei traumi della forzata esclusione e magari del «vizio dell’absence», degli scacchi pratici, della delusione amorosa, entro un tormentoso equilibrio fra «bisogno» di vera «vita» e «felicità» e impossibilità di ottenerle (sia come «anima grande e infelice», sia come «uomo» tout court incolpevole vittima di un ordine delle cose ostile e ingiusto) poteva non solo fondare la sua visione pessimistica (ma non rinunciataria), la sua profonda protesta storico-esistenziale, sulla base di una vissuta esperienza (cosí diversamente da un tranquillo e astratto speculatore solo filosofico) universalizzando, d’altronde, tale sua esperienza sofferta (ché per lui, chi non ha sofferto non capisce nulla, non sa nulla) con la forza del suo possente intelletto e della sua grande immaginazione (donde la ben giusta protesta contro gli sciocchi e i malevoli che facevano derivare la sua «filosofia» solo dalle sue personali malattie e sventure, come ben capí il De Sanctis parlando di un pessimismo «avvalorato», non pesantemente determinato, dai mali del poeta), ma poteva cosí confermare, anche su questo delicatissimo (e spesso troppo trascurato) versante della condizione umana, la sua profonda vocazione «umanamente democratica» e non «paternalistica». Egli non guardava con la ambigua «pietà» del sano e fortunato ai sofferenti, agli esclusi, agli sventurati, agli oppressi da altri uomini e da condizioni esistenziali, ma ne condivideva e conosceva ab experto le pene, uomo fra gli uomini, partecipe effettivamente, in prima persona, della legge del patimento e del contrasto fra «bisogno» e «impossibilità» della felicità (per lui non pretesa assurda e «immatura», ma molla e assillo vero della vita umana). Mentre, per capire ancora, in tutte le pieghe complesse della sua esperienza e della sua indagine conoscitivo-moralistica (entro cui Leopardi può ben giungere al desiderio ardente della morte, del non esistere e del non essere nato) il fondo energico e la tensione vitale (e non perciò fatuamente vitalistica e attivistica: il «gobbo di Recanati» non dirà nulla a un D’Annunzio) della personalità leopardiana, come non sottolineare, fra l’altro, l’inesausto Leitmotiv leopardiano dell’esaltazione della giovinezza e dell’avversione per la vecchiaia?

Diversamente da Hölderlin che avvertí spesso (si pensi al finale di Abend-phantasie[1]) il valore del rasserenamento saggio e misurato della maturità e magari della vecchiaia in contrasto con l’irruenza eccessiva della gioventú, il Leopardi costantemente esalta il fervore, la pienezza, la purezza della giovinezza e costantemente esprime l’orrore del declino di quella nella maturità e nel rapido avvento della vecchiaia: dai versi della canzone rifiutata del ’19 Per una donna inferma e delle Nozze per la sorella Paolina (in questa «la santa / fiamma di gioventú», in quella la «nefanda vecchiezza» e l’«età provetta» con il loro «vile senno») a tanti passi sintomatici dello Zibaldone su quelle parole essenziali, alla delineazione tremenda dell’iter vitale dell’uomo o nella sintetica espressione del finale dell’Ultimo canto di Saffo o in quella ossessiva e martellata del Dialogo della Natura e di un Islandese, ai celebri versi del Passero solitario («di vecchiezza / la detestata soglia») fino alla suprema diagnosi della vecchiezza nel Tramonto della luna.

L’ideale del Leopardi non era certo la saggezza, il Mass, il rasserenamento pacato dopo la «vera» vita, cosí come la stessa ardente impersuasione, e quindi la violenta protesta, di fronte alla sorte di infelicità, di decadenza biologica, di caducità inesorabile degli uomini (che il buon senso porta a considerare come cosa scontata e da guardare con maturo distacco) contro la stessa generale legge della natura pur cosí lucidamente e materialisticamente compresa e demistificata, mantengono nel Leopardi una specie di perenne e drammatico incontro fra profonda maturità di conoscenza-esperienza e «giovanile» scontentezza, e quasi impersuasione di fronte agli stessi lucidi ricavi della sua diagnosi della condizione umana e della realtà.

Al fondo dunque della personalità leopardiana c’è una riserva enorme di tensione e di aspirazione alla vita e ai suoi valori piú elementari e piú alti che danno sempre un timbro energico anche ai suoi moti di piú profonda delusione, alle sue piú desolate rappresentazioni negative, ai suoi «no» d’altronde cosí fecondi e stimolanti per ogni costruzione non fatua, trionfalistica, ma consapevole della propria via stretta e difficile, del proprio drammatico, anche se doveroso azzardo.

Perciò gli stessi inizi del precocissimo geniale fanciullo consolidati nella produzione dei «puerili»[2] (i versi e le prose composti fra il 1809 e 1812) si presentano ad un lettore non sprovveduto come una forma di apprendistato letterario-scolastico non certo sopravvalutabile per i suoi risultati (tanto che il Leopardi poi li trascurò rispetto all’inizio della sua personale attività letteraria-poetica da lui segnata nel 1816), ma certo anche assai significativi a segnare le primissime basi di partenza della sua esperienza e i primi accenti di un ingenuo, ma sincero entusiasmo morale, intellettuale, fantastico, tanto piú chiaro e percepibile di ogni precisa identificazione di un incunabolo del gusto idillico sottilmente ricercato nel privilegio di certe note paesistiche enucleate dal contesto intero di quella varia «esercitazione» scrittoria, pur tutt’altro che anonima.

Quei versi e quelle prose in italiano e in latino, nella loro stessa prevalente destinazione alle pubbliche prestazioni dell’Accademia aperta nel proprio palazzo dal padre Monaldo e nel loro raccordo con un’educazione retorica di tipo tardo-settecentesco latamente gesuitica, ben indicano la base di partenza di Giacomo, con la sua precoce disponibilità immaginosa, in una primissima formazione fortemente influenzata appunto dal padre e dalle sue idealità cattoliche e reazionarie.

A quelle il fanciullo aderiva anzitutto con il suo fervore candido, con la sua naturale intransigenza, con il suo entusiasmo di combattente per la verità, identificata con il dogma cattolico al cui servizio egli impiegava la sua educazione retorica e una precoce razionalità allora sicura di adempiere il proprio ufficio rischiaratore contro le empie massime libertine «moderne» e un distorto uso della stessa ragione. La sua varia esercitazione toccava, con virtuosistica abilità, il gusto canzonettistico arcadico-postarcadico (con un primo segno di un gracile colorismo che sarebbe errore negare ma, peggio, esaltare come indicazione di una privilegiata disposizione idillica), quello del sonetto eroico e grandioso (tra il Frugoni e i suoi epigoni), quello, in direzione grandiosa e patetica, di sciolti, poemetti e varie virtuosistiche combinazioni di metri tutta già intrisa di risentimento e influenze del Varano, dello Young, del Gessner, dell’Ossian cesarottiano (un primo contatto, insieme a quello con i classici latini, con la letteratura tardo-settecentesca preromantica attraverso cui il fanciullo dà già sfogo a certi suoi traumi e disposizioni a descrizioni lugubri, tempestose, drammatiche in una primissima formazione scrittoria e personale), quello epigrammatico, piú legato ad ambizioni di rinnovamento dei generi della letteratura italiana retoricamente amata e sostenuta di fronte ad altre letterature, quello del componimento burlesco e scherzoso (piú facilmente riuscito sulla via del divertimento piacevole, venato di una innocente e un po’ prelatizia scurrilità che trovava il suo esito piú francamente delizioso nella prosa della lettera della Befana del 1810, piccolo capolavoro di humour e di aristocratica disinvoltura del fanciullo nella sua condizione, tutt’altro che solitaria, nell’ambiente signorile recanatese). E comunque quella vasta esercitazione consolidava, nei margini di una prima appropriazione scrittoria, il possesso di letture piú tardi riaffioranti in vari aspetti della successiva attività (si pensi a quelle dei poemetti eroicomici, fra Seicento e Settecento, utilizzati per il rifacimento in ottava rima dell’Arte poetica di Orazio e poi risentiti fino ai Paralipomeni). Ma essa trovava i suoi centri piú interessanti per noi o nell’esplicita apologetica cattolica o in certo appassionato impegno nell’esaltazione di una virtú e di un eroismo spinto fino al paradosso (i componimenti sulla morte di Ettore o di Saul, poi le tragedie Pompeo in Egitto e La virtú indiana) secondo una tipica tendenza della letteratura gesuitica specie teatrale (di cui lo stesso Monaldo aveva dato esempio), ma con una partecipazione ingenua e sincera del fanciullo, che quelle virtú magnanime ed iperaltruistiche collegava al suo bisogno di impegno personale e alla sua fede cattolica rafforzata dal riassorbimento in quella dell’eroismo classico e della convalida della ragione ripresa da chiare utilizzazioni cattoliche del razionalismo e dell’illuminismo di contro alle piú vere prospettive di quelle ideologie «perniciose». Tanta era l’attrazione di una prospettiva combattiva e apologetica che già intorno al ’12 la vera e propria esercitazione in versi (quasi come piú frivola e meno adatta a quella) cede posto al pieno predominio della prosa in cui il Leopardi viene prendendo sempre meglio la posizione baldanzosa di un «giovane riformatore» cattolico-illuminato contro gli errori della moderna filosofia – sia inserendosi con lo scritto sull’anima delle bestie in una grossa polemica settecentesca sia aggredendo (con un misto significativo di aggressione e di subíta attrazione) nel Dialogo Filosofico sopra un moderno libro intitolato Analisi delle idee ad uso della gioventú, l’opera di un certo Mariano Gigli, recanatese, che esponeva la filosofia sensistica con la sua negazione del libero arbitrio –; ma insieme, a poco a poco, aderendo sempre piú alle istanze metodologiche razionalistiche e illuministiche (come si colgono nel complicato ingorgo di letture delle già assai interessanti Dissertazioni filosofiche dell’11-12, di cui fa parte il citato scritto sull’anima delle bestie) su di una via assai sdrucciolevole e tale da portarlo progressivamente al di fuori del piú preciso contesto dell’insegnamento di Monaldo e della direzione piú tipicamente cattolico-reazionaria.

È in tale prospettiva di progressivo, anche se complicato ed incerto sviluppo intellettuale, che vanno soprattutto letti i due trattati, fra ’13 e ’15, la Storia dell’astronomia e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, che si alimentano insieme del crescente impegno erudito e filologico, portato avanti – sulla base dei libri offertigli dalla biblioteca paterna e di una cultura che, attraverso questi, si viene lentamente sprovincializzando e arricchendo – con una chiara vocazione di eccezionale lucidità intellettuale e capace poi di sorreggere un’autentica attività di vero e grande filologo, ma intanto soprattutto sottesa da un forte bisogno di chiarimento e di intervento culturale, di battaglia per la verità e per la sua divulgazione. In cui il giovinetto aristocratico vien anche rivelando la sua stessa implicita concezione di una nobilitazione piú vera attraverso lo studio e l’attività culturale e distinguendosi cosí da quei privilegi acquisiti che piú tardi – nel chiarimento essenziale del ’17 – denuncerà aspramente nei suoi «colleghi» di classe aderendo all’idea alfieriana-giordaniana dei compiti dello scrittore tanto piú libero, in quanto di condizione nobile e non bisognosa di mercimonio e di protezione, ma sempre piú di fatto svuotandola di vero significato classista nella propria identificazione con «ogni uomo» e con il letterato come voce di una verità universale in una civiltà fondata sul «vero» e sul «travaglio», in una collaborazione anzitutto dell’uomo di cultura e del popolo piú schietto e non deformato, piú vivo ai problemi essenziali dell’«util comune» e di una società non egoisticamente individualistica anche se fatta di individui concreti e mai duramente livellabili e massificabili.

Sicché la componente sociale – sia chiaro una volta per tutte, anche se tutto ciò richiederebbe ben piú vasto discorso – non pesa massicciamente sul profondo istinto democratico del Leopardi, piú che immediatamente politico, prepolitico[3]: si pensi, ad esempio, alla differenza che corre fra un Leopardi con la sua apertura alle «persone», a «tutti», alle persone piú umili, oggetto tanto spesso della sua maggiore simpatia e passione poetica, e un Alfieri, che rifletteva indirettamente la sua origine sociale anche nella «arciaristocratica» scelta della destinazione dei propri affetti e dei propri personaggi di eccezione.

Nella Storia dell’astronomia la lotta del «giovane riformatore» contro gli errori e i pregiudizi si avvale di una entusiastica fede nei lumi della ragione che, raccordati ad una natura provvidenziale e al suo creatore, aprono sempre faticosamente la strada della scienza e di un progresso concepito fin troppo ingenuamente come rettilineo (tanto che alla data di morte di un grande scienziato il giovane cercò la coincidenza della data di nascita di un altro pensatore che sopperisce alla scomparsa del primo!), mentre il sentimento eroico di una cultura, nata dall’impegno totale dei suoi protagonisti, esalta questi come «martiri della ragione», secondo la definizione del Newtonianismo per le dame dell’Algarotti, che è certo uno dei testi piú suggestivi per tutta quest’opera giovanile e contribuisce a sostenere anche la prospettiva divulgativa di questa e il netto primato concesso alla scienza sperimentale (Galileo e Newton) rispetto alla filosofia piú matematico-logica di tipo cartesiano.

Colpiscono dunque nel giovanissimo Leopardi lo sforzo di ricerca di un metodo e di un’interpretazione della scienza come battaglia per la cultura e la civiltà, la prospettiva divulgativa e l’accento entusiastico ed eroico, presente anche nella stessa proposta di se stesso come nuovo collaboratore, in prima persona, del progresso e di un’illuminazione razional-provvidenziale che arricchisce le sue posizioni cattoliche di un tale slancio progressivo da portarlo già assai al di là del padre retrivo e invocatore di un nuovo Copernico capace di rimettere la terra al centro dell’universo. Tali elementi superano di gran lunga, per interesse, la portata di qualche raro «squarcio immaginoso» su cui la critica ha sin troppo insistito, nella sua ossessiva ricerca unilaterale della nascita della poesia contemplativa leopardiana, trascurando l’utilizzazione piú corretta di questo testo nella sua prospettiva piú usufruibile e trascurando di individuare alla base di quei rari «squarci» una cosí vicina presenza di testi altrui da ridurre la novità in forma di vera e propria parafrasi ancora assai passiva, come è il caso tipico del brano sull’infinità dei mondi e sulla piccolezza della terra esemplato su un passo della ventunesima notte dei Night Thoughts dello Young[4].

L’abito critico che il giovane era venuto acquistando nella Storia (e con tutte le sue implicazioni sorreggeva, ma piú corrodeva, il quadro cattolico entro cui veniva con sforzo inserito) si pronuncia, con maggiore complessità nel piú maturo Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (costruito su letture piú vaste e piú dirette rispetto alla Storia troppo spesso appoggiata piú che a testi di prima mano a enciclopedie e a compilazioni) sia perché la lotta contro gli «errori» è divenuta consapevole della sua difficoltà e del risorgere di quelli in nuove forme (sicché cala la piena fiducia in una ragione provvidenzialistica e cresce una specie di pena per la miseria dell’uomo a tanti errori sempre esposto) sia perché il giovane scrittore è pure fortemente attratto dall’aspetto «arcano» e favoloso degli errori mitologici degli antichi (spesso insieme occasione di satira e di ironia per la loro grossolanità) attuata in brani e capitoli piú apertamente immaginosi e sensibili che – in forma piú personale – assimilano e rielaborano, in una prosa ancora gracile, ma piú fertile e vivace, passi di poeti classici o moderni (specie gli Idilli del Gessner) o traducono poeticamente i versi greci piú volte citati.

L’alacrità della mente e della sensibilità del giovane scrittore appare cosí in forte svolgimento e (senza accedere alle ipervalutazioni preidilliche dei passi piú sensibili ricordati) si avverte come dall’attrito intellettuale e morale scaturiscano movimenti di poeticità e di fervore scrittorio, orientati o verso la dolente elegia sulla miseria umana o verso il frizzante gusto di satira e di ironia o verso rappresentazioni paesistiche e intimistiche (i brani del Meriggio o degli Spaventi notturni) appoggiate a precoci esperienze personali e – come dicevo – a letture piú assimilate e feconde, o verso appassionati slanci oratorii nell’esaltazione sentimentale estetica della religione cristiana (appoggio nella lotta contro gli errori, ma piú «conforto dei cuori sensibili e ragionevoli», fonte di «estasi in cui getta una meditazione soave e toccante») che non mancano di chiari accordi con nuove aperture del giovane alle forme sensibili-misticheggianti del romanticismo della Restaurazione (lo Chateaubriand del Génie du Christianisme in testa) e cosí testimoniano il passaggio del giovane cattolico inquieto dalla piú chiusa prospettiva monaldesca a consonanze comunque piú moderne e sollecitanti.

Mentre dunque il giovane scrittore si mostra in chiaro progresso e il suo linguaggio tenta impasti e toni piú vari e sensibili, il giovane intellettuale si accosta a tematiche e a tonalità piú moderne portando nelle stesse accettate posizioni della Restaurazione un suo piglio piú personale e una versione di quelle tanto entusiastica quanto – appunto per ciò – disposta ad aprirsi al di là di quelle stesse e dei loro limiti storici medi e dei loro piú ingannevoli alibi conservatori e reazionari. Come, in sede politica, ben comprova quell’Orazione agli Italiani per la liberazione del Piceno (pure del ’15 in occasione della sconfitta di Murat a Tolentino), in cui il Leopardi accetta gli slogans della Restaurazione (la guerra della Santa alleanza contro la tirannide di Napoleone e dei napoleonidi come affermazione della libertà, della pace operosa, dei diritti di indipendenza dei popoli sotto il regime «paterno» dei principi legittimi e restauratori), ma con una tale carica di entusiastica e ingenua persuasione nel senso non pretestuoso di quelli, che essi vengono esposti, nell’ardente e sincero spirito leopardiano, alla delusione amara di una verifica piú sicura della loro vera realtà, mentre l’accezione, nel Leopardi, di quelle grandi parole (libertà, indipendenza, antitirannia) permane intatta e bisognosa – dopo quella inevitabile delusione – di ben altre collocazioni e riferimenti.

E del resto, anche in sede religiosa e filosofica, certe accentuazioni tormentose (anche in alcuni discorsi sacri del ’14) della misera natura umana sembrano sottolineare, pur nel loro chiaro contesto cristiano, un’apertura di moralità pessimistica, gravida di ben altre conclusioni, e la stessa fede nell’accordo cattolico-illuministico è cosí permeata di intransigenza intellettuale e di critico spirito razional-sperimentale da far prevedere una corrosione interna di quell’accordo provvisorio e la duplice conseguenza di una, seppur ancora incerta, crisi religiosa e filosofica che travolgerà e la fede cattolica e la stessa fiducia razionalistica aprendo la lunga strada del sistema della natura e delle illusioni e poi del suo logoramento e della sua dissoluzione nella nuova contrapposizione fra uomo e natura.

Ciò che, in ogni caso, può cogliersi già nel breve ambito degli anni del cosiddetto periodo erudito è la complessità e serietà del suo movimento che passa dalle posizioni di un cattolicesimo retrivo, confortato da un’utilizzazione subordinata del razionalismo, a quelle di un cattolicesimo inquieto e a quelle della Restaurazione, già cosí pericolose agli occhi di Monaldo proprio per quell’uso di parole come libertà e diritto dei popoli e invece, proprio per quello, cosí affascinanti per Giacomo. E, d’altra parte, quel movimento già coinvolgeva tutte le forze nascenti della personalità leopardiana in un nesso ed attrito di pensiero, di moralità, di tensione espressiva tanto diversa dall’immagine di una formazione in cui accenti prepoetici, qualificati senz’altro preidillici, sarebbero fioriti isolatamente contro o malgrado il presunto unico peso dell’erudizione.

E certo, se dall’attrazione dell’«arcano» degli errori mitici e degli «incantati alberghi delle Muse» (la poesia mitologica classica esaltata nella lettera-prefazione al Mustoxidi del Saggio sopra gli errori popolari) e dalle stesse traduzioni poetiche, in quel saggio, dei versi greci citati si alimenta la nuova e piú diretta volontà del giovane scrittore di «far proprie», traducendole poeticamente, opere e poesie greche e latine, anche in questa fase del tradurre poetico, fra 1814-15 e 1816-17, spirito critico e poetico, erudizione e filologia si agevolano e si aiutano in un’ulteriore formazione complessa ed attiva, piú letteraria ma nutrita comunque anch’essa da una chiara ricerca di posizioni culturali e polemiche, presenti nelle prefazioni alle traduzioni (ad esempio l’attacco ai traduttori francesi e l’appoggio ad un nazionalismo classicistico non privo di piú complesse ragioni culturali e morali, ma anche la stessa giustificazione del «tradurre poetico» e delle sue forme in confronto con le poetiche del tradurre settecentesche e contemporanee) e anche letterariamente irraggiata in una vasta apertura di interessi, di intenzioni, di interventi in prima persona, di toni affettivi-poetici, che minutamente potrebbero verificarsi alle basi delle stesse scelte dei testi tradotti e che non possono solo indicarsi come risolutamente congeniali e anticipatrici nella traduzione degli idilli di Mosco o magari in quella precisa del quinto idillio, secondo la originalissima, ma ben discutibile affermazione del De Sanctis.

In realtà in quella vasta ricerca e operazione stilistico-poetica, ma anche affettiva e culturale delle traduzioni poetiche, il Leopardi tentava modi e toni, temi ed elementi che rifluiranno nella sua poesia originale con varia forza e gradazione di incidenza, ma senza una linea di assoluta preferenza e congenialità tutta preformata e rigida[5]. Cosí nello stesso caso della versione degli idilli di Mosco (cosí fortemente influenzata non solo dalla versione del neoclassico Pagnini, ma dagli idilli preromantici del Gessner nella versione italiana del Soave: elementi di cui un De Sanctis non era in grado di tener debito conto) sarà da rilevare la forte componente «elegiaca» che si insinua fortemente anche là dove piú si pronuncia quella «idillica». E d’altra parte come non considerare, per una preistoria della poesia leopardiana, la felicità e l’interesse (convalidato dalla ripresa di quella traduzione nel ’22 e nel ’26) della versione del poemetto eroicomico pseudomerico della Batracomiomachia in cui il linguaggio del giovane scrittore appare singolarmente agile e mosso, e lo stesso volgersi della sua volontà di traduttore «originale» a testi piú impegnativi e «classici» (piú che «alessandrini» come erano i primi ricordati) quali il secondo libro dell’Eneide e del primo e dell’inizio del secondo dell’Odissea e della Titanomachia di Esiodo, con la inerente prova di un linguaggio piú eroico e appassionato, o piú narrativo-epico, o piú grandioso e terribile, di cui il Leopardi potrà fruire nelle prospettive non idilliche delle canzoni patriottiche?

E quando poi nel 1816, pur nella prosecuzione delle versioni poetiche, il Leopardi fu spinto dalle sollecitazioni del tradurre poetico e da nuove esigenze intime alla ricerca di una espressione poetica propria, i segni piú vistosi della sua personalità in formazione sembrano ancor piú di quelli, pur sensibilmente elegiaci, dell’«idillio funebre» Le rimembranze (ricalco assai fine della Tomba dell’uomo dabbene del Gessner) o di quelli della divertita canzonetta domestica e comica La dimenticanza, quelli dell’abbozzo della tragedia Maria Antonietta[6] o quelli della cantica Appressamento della morte: in una direzione dunque drammatico-elegiaca che coinvolge elementi autobiografici appassionati e posizioni religiose e politiche, spia del tormentoso interesse leopardiano per la storia contemporanea e per la propria esperienza in inquieto sviluppo, entro i confini di una cultura limitata dalla concreta situazione biografica (la casa e la biblioteca paterna, l’angusto cerchio di relazioni aristocratiche recanatesi) che comincia ad aprirsi verso i centri culturali italiani filologico-eruditi e letterari fra Roma e Milano sia nelle relazioni epistolari ancora assai accademiche e diplomatiche sia in qualche primo tentativo di collaborazione ai giornali letterari riuscita a livello filologico-erudito, fallita a livello piú direttamente letterario (il caso dell’articolo inviato alla «Biblioteca italiana» in risposta alla celebre lettera della Staël, già cosí interessante per la prospettiva di un classicismo nazionale ancora assai limitato, ma in via di approfondimento, e per la prima e piú facilmente entusiastica nozione della poesia come voce della «vera castissima santissima leggiadrissima natura»[7]).

L’abbozzo della tragedia Maria Antonietta, ispirata da una volontà di recupero drammatico della vicenda finale della regina di Francia (che tanto aveva commosso l’opinione pubblica cattolica e conservatrice e aveva promosso una pubblicistica agiografica e martirologica antirivoluzionaria molto rappresentata nella biblioteca di Monaldo), colpisce per la forte tensione sentimentale drammatico-elegiaca, per l’accordo frequente di toni di «magnanimità», di «tenerezza», di «trasporti fierissimi e tenerissimi», per il tema di contrasto fra passato felice e doloroso presente, per il tema ossianesco della «memoria acerba», per la sensibile attenzione ad una scena percepita attraverso suoni e rumori, il loro degradare e sciogliersi nel silenzio: avvio di una tecnica che, agevolata dalla lettura cosí importante dei Canti di Ossian, sarà poi cosí altamente attuata nella Sera del dí di festa, e che, insieme agli altri elementi ricordati, ben mostra come il Leopardi cominciasse a muoversi – fra sollecitazioni di letture congeniali e l’affiorare di proprie tendenze – in una via di tensione espressiva corrispondente al suo crescente impeto sentimentale, al suo bisogno di alti compensi immaginativi, eroico-patetici, alla propria solitudine e al proprio disagio biografico. E se nella stessa ricordata versione del secondo libro dell’Eneide tale tensione si rivela nei modi di accentuazione del testo tradotto dei toni piú eroici[8] e patetici e si ripercuote in quella della Titanomachia con la ricerca estremistica di un tono «traforte» e «sublime», nella «cantica» composta alla fine dell’anno il Leopardi tentava di appoggiare un desolato quadro elegiaco della sua situazione personale o sollecitato dal sentimento di una morte precoce e invano consolata dalla persistente pietas religiosa, ad una impegnativa seppur farraginosa costruzione di poesia immaginosa e sentimentale, grandiosa e patetica, anche se per lo piú in realtà debole ed enfatica, significativa comunque per il primo sforzo di una propria poesia moderna e personale. Ripreso lo schema di cantica e visione scenografica dalle visioni del Varano e del Monti (tipico in tal senso il canto primo con il suo passaggio trascolorante sontuosamente da sereno a tempestoso e la figurazione dell’angelo annunciatore della morte vicina)[9], il Leopardi vi inserí una lunga e discontinua presentazione (nella voce dell’angelo che vuol dimostrare al giovane destinato alla morte la vanità della vita) dei sentimenti e dei beni mondani squalificati da un punto di vista religioso e moralistico nella loro vanità e peccaminosità, anche se a volte – come nel caso significativo dell’avversione alla tirannide e dell’esaltazione della patria italiana – essi mantengono un’attrazione positiva invincibile: come avviene alla fine per la stessa vita in genere, che nel canto quinto (certo il piú originale, ripeto, e «personale», come apparirà ancora nel ’20 al poeta)[10] oppone le sue attrattive, e soprattutto le sue possibilità di impegno e di gloria, all’accettazione religiosa della morte.


1 ... doch-endlich, Jugend, verglühst du ja. / Du ruhelose, träumerische! / Friedlich und heiter ist dann das Alter.

2 Circa la pubblicazione dei «puerili» inediti mi basta qui rinviare (per le anticipazioni sulla «Stampa» presentate da G. Piovene e da M. Corti) alla nota di S. Timpanaro nel suo articolo Un parnassiano atlantico (in «Belfagor», 1, 1972, p. 103, nota 3) e all’articolo di L. Cellerino, Giacomo Leopardi su misura della Fiat, nel Manifesto del 3 dicembre 1971, e (per la vicenda generale di questa impresa editoriale-commerciale) al comunicato del Centro Nazionale di studi leopardiarni in «Giornale storico della letteratura italiana», 4, 1972.

3 Si veda su questo tema della particolare nobiltà del Leopardi («eroe-gentiluomo») non conservatrice, ma contestatrice del proprio tempo, quanto ne dice G. Bollati nell’interessante introduzione alla recente ristampa della Crestomazia della prosa (Torino 1968), che ben distingue il disprezzo di Giacomo da quello di un Monaldo «per il mondo dell’industria, del profitto e del calcolo instaurato dalla borghesia postrivoluzionaria» (p. xcv): figlio di una società preindustriale, il Leopardi contesta il sistema borghese alla luce di ideali umani antitetici agli aspetti piú negativi della civiltà industriale e aperti a istanze di solidarietà, non qualificabili certo senz’altro come «socialiste», ma certo tuttora fortemente sollecitanti per una società nuova che, a tanto diverso e nuovo livello storico, ha pur di fronte a sé problemi di fondo cosí fortemente sottolineati dalle proteste e proposte del Leopardi. E alla fine l’«eroe-gentiluomo», contestatore del proprio tempo e delle ideologie ottimistiche e «progressiste» in senso borghese, sempre piú diventerà l’eroe intellettuale e uomo, affratellato agli altri uomini dalla stessa verità di cui è portatore e dalla stessa condizione e sorte da lui come dagli uomini vissuta e sofferta, superando dall’interno della comune esperienza, se consapevolmente riconosciuta e non mistificata, ogni orgoglioso privilegio e ogni atteggiamento puramente paternalistico.

4 Per questo caso e per tutta la presenza younghiana in Leopardi rimando al mio saggio Leopardi e la poesia del secondo Settecento.

5 Si veda in proposito il particolareggiato e fine esame di E. Bigi, Leopardi traduttore dei classici, in «Giornale storico della letteratura italiana», 4, 1964 (ora in La genesi del «Canto notturno» e altri studi leopardiani, Palermo 1967).

6 Cfr. in proposito la nota di G. Savarese, in «La Rassegna della letteratura italiana», 1, 1966.

7 In Lettera ai sigg. compilatori della Biblioteca Italiana in risposta a quella di Mad. la Baronessa di Staël (Tutte le op. cit., I, p, 882).

8 Si pensi almeno alle parole di disperata volontà di lotta e di sacrificio che anticipano il celebre passo della canzone All’Italia: «Armi, qua l’armi / vinti a morte n’appella il giorno estremo...».

9 Il Leopardi riprese questo canto tanto piú tardi per l’edizione del ’35 dei Canti riducendolo in forma di «frammento» (il XXXIX) apportandovi cambiamenti di gusto tanto piú sicuro e dando al brano una prospettiva misteriosa ed enigmatica, accentuata dal cambiamento del personaggio autobiografico in una donna «volta ad amorosa meta» lasciata pietrificata dallo spavento.

10 In un pensiero dello Zibaldone del luglio 1820 (Tutte le op. cit., II, p. 71), il Leopardi riprospettando a se stesso il proprio cammino di poeta e il passaggio da una fase di poesia di «affetti» notava, citando quel canto quinto: «ben è vero che anche allora quando le sventure mi stringevano e mi travagliavano assai, io diveniva capace anche di certi affetti in poesia, come nell’ultimo canto della Cantica».